Sulla depressione molto si è detto e molto si è scritto, più raramente ci si è soffermati sul significato e sul messaggio che questo stato d’animo porta con sè. La depressione sembra essere una tra le patologie più diffuse. Si possono distinguere due forme depressive in base alle cause di origine, la depressione grave (depresssione melanconica, melanconia, o depressione endogena) e la depresssione reattiva dovuto ad un qualche evento di perdita nella storia della persona. In questo articolo mi occuperò della depressione melanconica. Tradizionalmente è stata definita come il “male oscuro”, senza rimedio, una malattia da temere e rifuggire. S’insinua in modo lento, progressivo, togliendo un pò alla volta la voglia di vivere. Stanchezza, malinconia, bisogno di restare soli, perdita dell’interesse per cose che prima erano importanti, per le persone care e per se stessi, sono i sintomi più evidenti di tale stato d’animo. E’ una dimensione di angoscia e dolore che azzera progetti e speranze per il futuro. Nella depressione melanconica la funzione dell’Es che si connette al sentire e ci permette di entrare in contatto con il mondo, è gravemente disturbata e la percezione che emerge è quella di sentirsi distaccati dal mondo e dal suo fluire. Questo comporta un vissuto estremamente doloroso dovuto all’ annullamento dell’interesse per ciò che ci circonda. Interesse come (essere tra) ci fa comprendere come questa patologia sia di carattere esistenziale, essa è rappresentata dall’incapacità della persona di essere nel contatto, di essere con e nel mondo, di essere in relazione. Vi è una perdita dell’”aggancio” a tutto ciò che la vita e l’ambiente rappresentano. Anche la funzione della Personalità è alterata in quanto queste persone non si sentono all’altezza dei propri ruoli fino ad arrivare ad una grave perdita della realtà. Per quanto riguarda la funzione dell’Io ritroviamo una non possibilità di identificarsi o differenziarsi e quindi una impossibilità di scegliere. Nella terapia è fondamentale il lavoro con la funzione dell’Es. Il terapeuta ascolta il dolore, ed il solo fatto di poterne parlare, apre la possibilità di contattare il proprio malessere, di riconoscerlo, di familiarizzare con il proprio vissuto interiore ed averne così meno paura. La persona viene accompagnata a prendere contatto con le proprie emozioni (dolore, rabbia,ecc.), a sentire le sensazioni di oppressione e pesantezza corporei per giungere lentamente in una dimensione dove potrà essere possibile elaborare la propria condizione, un tempo “sospeso” dove iniziare a seminare nuove progettualità e speranze per il futuro. Per il terapeuta è importante stabilire una relazione profonda sulla quale appoggiarsi nella fasi più difficili, fatte di rifiuti, di fatica, di frustrazioni, una attesa che risulta di grandissimo sostegno per la persona. E’ importante che il terapeuta abbia la capacità e la volontà di oltrepassare quel tempo cristallizzato, senza confluire, rimanendo accanto al cliente, offrendo a quest’ultimo un Io che funga da sostegno transitorio. Il terapeuta cerca di sostenere ciò che la persona già fa, si lascia affascinare da ciò che si muove nella persona, anche se a volte è poco, e questo può svelare la direzione possibile dopo essere disceso nell’ “immobilità oscura” e dove la dinamica figura/sfondo non si può realizzare in quanto manca quell’intenzionalità costitutiva dell’esperienza del tempo (argomento che verrà trattato nel prossimo articolo).”La verità del depresso è che la vita è anche dolore ed il dolore cresce quando il nostro cuore resta inascoltato”. Il lavoro del terapeuta potrebbe essere riassunto così: “Ascoltare non è prestare l’orecchio, è farsi condurre dalla parola dell’altro, la dove la parola conduce, se poi invece della parola c’è il silenzio dell’altro, allora ci si fa guidare da quel silenzio. Nel luogo indicato da quel silenzio è dato reperire, per chi ha uno sguardo forte e osa guardare in faccia il dolore, la verità avvertita dal nostro cuore e sepolta dalle nostre parole”. (Umberto Galimberti)
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